La Consulta dichiara incostituzionale il comma 10, lett. c), dell’art. 103, del DL 34/2020 nella parte in cui non esclude la condanna o il patteggiamento della pena per il reato di piccolo spaccio dalle ipotesi ostative ai procedimenti di regolarizzazione lavorativa.
Corte Costituzionale 19 marzo 2024, n. 43
La Corte Costituzionale, con sentenza del 19 marzo 2024, n. 43, ha ritenuto fondata la questione di legittimità sollevata dal TAR del Piemonte relativamente all’art. 103, comma 10, lett. c), del DL n. 34/2020 (convertito con modificazioni in L. n. 77/2020), norma che prevedeva l’automatico rigetto dell’istanza di regolarizzazione del lavoratore straniero se condannato, anche in via provvisoria, per una serie di reati, tra i quali anche quello di “piccolo spaccio” o se ne avesse patteggiato la pena.
La norma presa in esame dai giudici nomofilattici è stata introdotta nel maggio 2020, in piena emergenza pandemica, e si colloca all’interno di un testo normativo recante “Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da Covid-19”.
Le tre procedure di regolarizzazione (art. 103, DL 34/2020)
Nello specifico, l’art. 103 sopra citato ha previsto tre diverse procedure per l’emersione del lavoro irregolare e per rendere possibile la stipula di nuovi contratti di lavoro con cittadini stranieri già presenti sul territorio nazionale. In particolare, i lavoratori ammessi a tali procedure di regolarizzazione sono quelli impiegati nei settori a) dell’agricoltura, allevamento e zootecnia, pesca e acquacoltura e attività connesse; b) dell’assistenza alla persona per il datore di lavoro o per componenti della sua famiglia, ancorché non conviventi, affetti da patologie o handicap che ne limitino l’autosufficienza; c) del lavoro domestico di sostegno al bisogno familiare.
Le prime due procedure operano su impulso del datore di lavoro, il quale può presentare istanza «per concludere un contratto di lavoro subordinato con cittadini stranieri» oppure «per dichiarare la sussistenza di un rapporto di lavoro irregolare, tuttora in corso, con cittadini italiani o cittadini stranieri». Ove il lavoratore sia straniero, la normativa in esame prevede che la regolarizzazione può riguardare solo colui che (i) era già presente sul territorio nazionale alla data dell’8 marzo 2020 e che vi sia rimasto anche successivamente a tale data e (ii) che, prima dell’8 marzo 2020, sia stato sottoposto a rilievi fotodattiloscopici ovvero aveva soggiornato in Italia in forza di dichiarazione di presenza per soggiorni di breve durata o di attestazioni costituite da documentazione di data certa proveniente da organismi pubblici. In tali ipotesi, - ove non sussistano ragioni ostative - «convoca le parti per la stipula del contratto di soggiorno, per la comunicazione obbligatoria di assunzione e la compilazione della richiesta del permesso di soggiorno per lavoro subordinato».
Una terza procedura prevede invece che i cittadini stranieri, con permesso di soggiorno scaduto dal 31 ottobre 2019, non rinnovato o convertito in altro titolo di soggiorno, possono richiedere, un permesso di soggiorno temporaneo, valido solo nel territorio nazionale, della durata di mesi sei dalla presentazione dell’istanza. A tal fine, i predetti cittadini stranieri devono risultare presenti sul territorio nazionale alla data dell’8 marzo 2020, senza che se ne siano allontanati dalla medesima data, e devono aver svolto attività di lavoro, nei settori sopra elencati, antecedentemente al 31 ottobre 2019. Se al termine della durata del permesso di soggiorno temporaneo il cittadino straniero esibisce un contratto di lavoro subordinato ovvero la documentazione retributiva e previdenziale comprovante lo svolgimento dell’attività lavorativa in conformità alle previsioni di legge nei settori sopra elencati, il permesso viene convertito in permesso di soggiorno per motivi di lavoro.
Condizione ostativa del procedimento di regolarizzazione del rapporto di lavoro
Le tre procedure di regolarizzazione sopra richiamate sono tuttavia precluse in via automatica ove il lavoratore straniero – al momento della presentazione dell’istanza - risulti essere stato condannato, anche in via non definitiva, o aver patteggiato la pena per uno dei reati previsti dall’art. 380 c.p.p. o per i delitti contro la libertà personale ovvero per i reati inerenti agli stupefacenti, il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina verso l’Italia e dell’emigrazione clandestina dall’Italia verso altri Stati o per reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite.
Tale condizione ostativa al procedimento di regolarizzazione dei rapporti di lavoro è prevista nel comma 10, lett. c) dell’art. 103 sopra citato ed è proprio questa norma ad essere stata portata al vaglio del più alto Consesso.
In particolare, il TAR del Piemonte ha sostenuto che l’esclusione automatica del lavoratore straniero condannato o che abbia patteggiato la pena per il reato di “piccolo spaccio” [1]dalle procedure di regolarizzazione del rapporto di lavoro fosse contraria in primo luogo all’art. 3 della Costituzione, per contrasto con i principi di ragionevolezza e proporzionalità. Infatti, la presunzione assoluta di pericolosità sociale del lavoratore straniero sulla quale si fonda la norma censurata «non necessariamente trov[erebbe] corrispondenza nell’id quod plerumque accidit», ossia con ciò che accade nella maggioranza dei casi. In altri termini, coloro che vengono condannati per piccolo spaccio non sono di solito soggetti di comprovata pericolosità sociale, dunque presumerla in via automatica, senza un esame concreto circa la reale minaccia per la collettività rappresentata dal soggetto, contrasterebbe col principio di ragionevolezza. Inoltre, la previsione violerebbe il principio di proporzionalità, in quanto non sarebbe ispirata a un criterio di gradualità, che imporrebbe di affidare «all’apprezzamento discrezionale della pubblica amministrazione […] la valutazione della pericolosità concreta del soggetto richiedente».
Sempre secondo il TAR del Piemonte, poi, la norma censurata si porrebbe in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 CEDU, come interpretato dalla giurisprudenza convenzionale. Proprio l’art. 8 CEDU, infatti, al fine di garantire il rispetto della vita privata e familiare degli stranieri soggiornanti nei Paesi aderenti alla CEDU, censura le misure nazionali che fanno derivare in via di automatismo dalla commissione di reati il diniego di soggiorno e l’espulsione dello straniero, senza consentire un’adeguata ponderazione del carattere necessario di simili misure rispetto al fine di perseguire pubblici interessi in una società democratica.
La decisione della Corte Costituzionale
Investiti della questione, i giudici nomofilattici hanno ritenuto fondata la censura costituzionale sollevata dal TAR del Piemonte in ordine al comma 10, lett. c), dell’art. 103, nella parte in cui non esclude la condanna o il patteggiamento della pena per il reato di piccolo spaccio dalle ipotesi ostative ai procedimenti di regolarizzazione lavorativa. La norma in esame infatti contrasta con il portato dell’art. 3 della Carta costituzionale, violando così i canoni di ragionevolezza e proporzionalità. Infatti, fra il reato di piccolo spaccio e gli altri reati inerenti agli stupefacenti (quelli ai quali fa riferimento - in via generale - il comma 10, lett. c) dell’art. 103 in parola) vi è un ampio “iato sanzionatorio”, che si riflette, sul piano processuale, nell’espressa esclusione, rispetto ai delitti in materia di stupefacenti, del solo reato di piccolo spaccio dalle ipotesi di arresto obbligatorio in flagranza di reato. La contenuta sanzione penale ricollegata al reato di “piccolo spaccio” e la mera facoltà (e non l’obbligo) di arresto in flagranza di reato denotano non solo una consistente distanza in termini di gravità di tale fattispecie delittuosa rispetto alle altre in materia di stupefacenti, ma anche la scarsa offensività dell’illecito. Pertanto, collegare alla lieve entità offensiva del reato di piccolo spaccio la presunzione assoluta di pericolosità sociale del soggetto che lo ha commesso contrasta sensibilmente col principio di ragionevolezza, tanto più ove si consideri che tale assioma non è confortato neppure dall’id quod plerumque accidit, ossia da dati di esperienza generalizzata che dimostrino che coloro che siano stati condannati per il delitto di piccolo spaccio rappresentino poi effettivamente una minaccia per l’ordine pubblico e la sicurezza dello Stato. A causa delle precedenti condanne per un reato che l’ordinamento reputa di ridotta offensività, il lavoratore straniero vedrebbe proiettato a proprio danno «un cono di effetti inibitori illimitato e perpetuo, a nulla rilevando la risalenza nel tempo e […] la storia personale dello straniero successivamente alla regolare espiazione della propria pena».
In tal modo, sarebbe violato anche il canone di proporzionalità, avendo il legislatore previsto una misura che, «pur perseguendo efficacemente la salvaguardia degli interessi pubblici alla sicurezza dello Stato e all’ordine pubblico», rifiuta un approccio ispirato a maggior gradualità, «in guisa di affidare all’apprezzamento discrezionale della pubblica amministrazione titolare del potere la valutazione della pericolosità concreta del soggetto richiedente».
Alla luce delle argomentazioni sopra esposte l’alto Consesso ha sottolineato come l’estromissione assoluta di chi sia stato condannato per piccolo spaccio dalle procedure di emersione e di conclusione di contratti di lavoro esorbiti lo stesso scopo perseguito dalla norma, che consiste nel negare l’accesso al mercato del lavoro italiano a chi si dimostri una minaccia concreta per l’ordine pubblico o la sicurezza e non già a chi potrebbe contribuire allo sviluppo di settori chiave per la nostra società, come quelli di assistenza o legati all’agricoltura e all’allevamento. Per centrare lo scopo è sufficiente consentire un accertamento in concreto della pericolosità sociale del soggetto, come quello previsto dal legislatore all’art. 103, comma 10, lettera d), norma che considera la condanna per i reati meno gravi, precisamente quelli di cui all’art. 381 cod. proc. pen., «quale indice di pericolosità dello straniero» da porre a base di un accertamento da effettuare in concreto e non da postulare in astratto.
Di conseguenza, l’inserimento del reato di piccolo spaccio nell’art. 103, comma 10, lettera c), del d.l. n. 34 del 2020, vìola in maniera manifesta i principi di ragionevolezza e di proporzionalità, tradendo la stessa ratio dell’art. 103, ispirata all’istanza di favorire l’integrazione lavorativa e sociale di persone che con il proprio lavoro contribuiscono, spesso in condizioni di carenza di tutele, ad apportare significativi benefici alla comunità, com’è stato durante l’emergenza epidemiologica da COVID-19.
Il lavoratore straniero che sia stato condannato o che abbia patteggiato la pena per il reato di piccolo spaccio potrà presentare istanza per la regolarizzazione della sua posizione lavorativa solo ove la pubblica amministrazione accerti l’assenza in concreto di pericolosità sociale del soggetto, sulla base di un esame che tenga conto di ogni aspetto, quale la data di condanna, l’espiazione della pena e la condotta successiva all’espiazione della pena.
La Corte costituzionale ha ritenuto invece assorbita l’ulteriore censura di incostituzionalità formulata dal TAR del Piemonte relativa al contrasto del comma 10, lett. c), dell’art. 103 con l’art. 117 Cost. in relazione all’art. 8 CEDU.