Responsabilità contrattuale del commercialista per il mancato pagamento dei contributi

La Cassazione afferma che il commercialista è responsabile per le conseguenze negative derivate alla società poi fallita dal mancato versamento dei contributi relativi ai lavoratori dipendenti, anche qualora l'inadempimento sia stato commesso in accordo con la proprietà
La Corte di Cassazione, terza sezione civile, con l'ordinanza 20 novembre 2018, n. 29846 , si è pronunciata sul ricorso presentato da un commercialista nell'ambito di un contenzioso insorto a seguito di una procedura di fallimento.
Il giudice del riesame, in riforma della decisione di primo grado, aveva sancito la responsabilità del professionista in applicazione dell'art. 1227, primo comma, del codice civile, in misura pari al 50%, per aver deliberatamente deciso, insieme al manager dell'azienda assistita, l'omissione dei contributi Inps dovuti. In particolare il consulente non avrebbe dovuto considerare la volontà del cliente di non pagare i contributi dei lavoratori dipendenti per i giorni di assenza dal lavoro non retribuita, a cui i aveva fatto seguito l'accertamento dell'Inps. La Corte territoriale aveva quindi ritenuto che il commercialista non avesse tenuto fede al suo dovere di diligenza professionale. Questo imponeva il rispetto della normativa cogente il settore rientrante nella sfera di sua competenza.
Nel ricorrere per Cassazione, l'imputato lamentava, per quanto qui di interesse tra l'altro, violazione dell'art. 1218 del codice civile l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parto, in quanto, a suo dire, l'inadempimento del contratto professionale era dipeso dalla società committente. Tale condotta sarebbe stata idonea, di per sé, a interrompere il nesso causale sussistente tra l'errore del professionista e il pregiudizio conseguente patito dalla società cliente.
Nel respingere il ricorso del professionista, con l'ordinanza 29846/2018, la sezione lavoro afferma con orientamento nuovo che il commercialista è responsabile dei danni provocati al fallimento per essersi accordato con la società cliente a non pagare i contributi ai lavoratori.
Innanzitutto è da rilevare che, a differenza di quanto sostenuto dal professionista, la Corte territoriale ha escluso l'operatività dell'art. 50 codice penale (concernente l'esimente per consenso dell'avente diritto) rispetto al caso in esame - riguardante la responsabilità contrattuale del commercialista –, venendo in esso in rilievo un diritto non disponibile (obbligo contributivo), poiché regolato da norme inderogabili di legge.
Ciò posto, nel merito, la terza sezione civile ha dunque confermato il verdetto con il quale la Corte territoriale, respingendo le richieste del contribuente appellante, ha tenuto conto dell'incidenza causale della condotta illecita del cliente nella causazione del danno, ripartendo nel 50% le rispettive responsabilità a carico del consulente che insieme ai manager aveva deliberatamente deciso di omettere i contributi Inps, in applicazione del primo comma dell'art. 1227 del codice civile («se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze che ne sono derivate»).
Infatti, occorre ribadire che nel caso di specie la Corte d'appello, respingendo le richieste del contribuente appellante, ha tenuto conto dell'incidenza causale della condotta illecita del cliente nella causazione del danno, ripartendo nel 50% le rispettive responsabilità. Canone di responsabilità riconosciuto valido dalla Suprema corte.
La terza sezione civile ha poi ritenuto il motivo principale del ricorso in parte inammissibile e in parte infondato, considerando corrette le valutazioni del giudice a quo. Secondo il giudice di legittimità, infatti, il professionista, per suo dovere professionale, non avrebbe dovuto accettare la proposta illecita della società cliente di conteggiare i contributi previdenziali secondo criteri contrari alla legge. Proposta che il professionista avrebbe dovuto «decisamente rifiutare, proprio in adempimento al suo dovere di diligenza professionale che gli impone il rispetto della normativa cogente di settore rientrante nella sua specifica competenza. Accettando di non indicare i contributi di legge il professionista ha posto in essere un atto di inadempimento all'incarico conferitogli, assumendone ogni collegata responsabilità risarcitoria».
In tal modo, la condotta del professionista risulta essere stata valutata sotto il profilo della responsabilità contrattuale proprio in relazione agli obblighi cui egli è tenuto secondo le regole della professione. Infatti le obbligazioni inerenti all'esercizio dell'attività professionale sono, di regola, obbligazioni di mezzi e non di risultato, in quanto il professionista, assumendo l'incarico, si impegna a prestare la propria opera per raggiungere il risultato desiderato, ma non a conseguirlo.
Pertanto, ai fini del giudizio di responsabilità nei confronti del professionista, rilevano le modalità di svolgimento della sua attività in relazione al parametro della diligenza fissato dall'art. 1176, secondo comma, del codice civile, che è quello della diligenza del professionista di media attenzione e preparazione in relazione alla prestazione resa, così da assicurare che la scelta professionale cada sulla soluzione che meglio tuteli il cliente.
Nel caso di dubbi interpretativi o contrasti di giurisprudenza su norme processuali deve ritenersi che l'opinabilità della soluzione giuridica impone al professionista difensore una diligenza ed una perizia adeguate alla contingenza, nel senso che la scelta professionale deve cadere sulla soluzione che consenta di tutelare maggiormente il cliente e non già danneggiarlo (Cass. 5 agosto 2013, n. 18612; 28 febbraio 2014, n. 4790). La richiesta di svolgere un'attività al di sotto di questo parametro di diligenza, anche se riconducibile al medesimo cliente creditore, non vale pertanto a esonerare il professionista dal suo ambito di responsabilità, aggiunge la Suprema corte.
Come pure non è neanche ravvisabile nella fattispecie l'omissione di un fatto rilevante ai fini del decidere, poiché la considerazione del comportamento assunto dal cliente è stata svolta in termini di ricostruzione del nesso causale tra il criterio di imputazione della responsabilità e l'evento dannoso che va operata dal giudice di merito anche di ufficio (Cass. 22 marzo 2011, n. 6529; 30 settembre 2014, n. 20619; 10 maggio 2018, n. 11258; Sez. Un., 3 giugno 2013, n. 13902), la cui valutazione coinvolge un giudizio sul fatto incensurabile in Cassazione se sufficientemente motivata (Cass. 9 giugno 2004, n. 10966; 9 maggio 2017, n. 11213).
In definitiva, è del tutto soddisfatta la condizione richiesta dalla giurisprudenza della Cassazione secondo cui la responsabilità del prestatore di opera intellettuale nei confronti del proprio cliente per negligente svolgimento dell'attività professionale presuppone la prova del danno e del nesso di causalità tra la condotta del professionista ed il pregiudizio del cliente (Cass. 26 aprile 2010, n. 9917).

 

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